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“Una voce dal lago” di Jennifer Donnelly

Oggi vi parlo… no, oggi non vi parlo di “Una voce dal lago” di Jennifer Donnelly, edito in Italia da Mondadori nella traduzione di Egle Costantino. Oggi provo a ripescare nei meandri della memoria gli stralci di una lettura.

Ho una pessima memoria per quanto riguarda le trame dei libri che leggo, il mio cervello sovraccarico di letteratura tende a mantenere in qualche polveroso cassetto solo qualche traccia sbiadita di emozione. E ora, trovandomi nel bellissimo #carnegietour di @chiediloallorango questo titolo che avevo già letto e che mi era piaciuto proprio tanto, mi sono resa conto di non ricordare molto.

Ho incontrato per la prima volta “Una voce dal lago” a settembre 2018, nell’ambito dei bellissimi SEMInari che Alessandra Starace organizzava con maestria degna di una direttrice d’orchestra.

All’epoca non tenevo traccia dei libri letti e spulciando qua e là ho ritrovato solo una frase che avevo scritto, in una delle discussioni: “A sud c’è il sogno, l’emancipazione. La grande città, l’università, in contrapposizione con il freddo nord che tarpa le sue ali.”

Profondo nord degli Stati Uniti, 1906. Mattie ha sedici anni ed è la donna di casa: da quando la madre è morta aiuta il padre e si occupa delle sorelle. Mattie però ha una grande passione, che per i suoi tempi e la sua situazione sembra un sogno irrealizzabile: andare a New York a studiare per diventare scrittrice. La razionalità le direbbe invece di sposare Royal, il ragazzo della fattoria accanto.

L’altra storia è un giallo: una donna annega nel lago davanti all’albergo in cui Mattie sta lavorando per racimolare i soldi per studiare o per sposarsi, a seconda della strada che sceglierà di intraprendere. E Mattie sospetta che il fidanzato della donna possa essere coinvolto.

Per il resto i miei ricordi sono i seguenti…

Parole. Emancipazione. Scelte di vita. Treno. Lago. Mistero. Lettere. Sorelle.

La bellissima modella perfettamente calata nella parte della ragazza d’inizio Novecento è Virginia Mori Ubaldini di C’era una volta gioielli

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“Le cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadio” di C.S. Lewis

Continua il nostro viaggio nel meraviglioso regno di Narnia…

Abbiamo concluso il secondo libro, “Il leone, la strega e l’armadio”, edito in Italia da Mondadori nella traduzione di Chiara Belliti. Questa è la Narnia che tutti conoscono, quella di Lucy, Edmund, Susan e Peter. Quella della strega bianca, che altri non è se non Jadis.
 
Leggendolo con i miei figli, io godo del loro trasporto e vedo le cose anche attraverso i loro occhi. Ciò premesso, a me Narnia piace tantissimo, pur con i suoi difetti. Ho trovato questo secondo libro, proprio come il primo, a tratti scarno e poco dettagliato: molte cose C.S. Lewis le nomina en passant, dandole poi per scontate. Trovo però che per l’età di riferimento vada bene così. I bambini spesso non hanno bisogno di grandi descrizioni e accettano le regole di un nuovo mondo senza farsi troppe domande. Quindi credo che per godere appieno della magia di Narnia si debba lasciarsi un po’ andare, senza guardare le cose attraverso il filtro dell’esperienza di questo mondo. È come leggere le fiabe: certe cose si accettano e basta, in cambio dell’incanto della storia.
 
Le ambientazioni sono magnifiche e alcuni personaggi sono davvero strepitosi, come il signor Tumnus e i signori Castoro. Dei quattro ragazzi quella che porto più nel cuore è Lucy, con la sua innocente freschezza. Il cammino di Edmund, se pur tortuoso, è plausibile e molto umano. Non tutti sono buoni sempre e comunque, e cadere in tentazione è facile.
 
Clive Staples Lewis, nord-irlandese nato a Belfast, rimase ateo fino ai trent’anni, quando si convertì al cristianesimo della chiesa anglicana. Questa parte di lui ha lasciato un’evidente impronta nei suoi libri, infatti quasi l’intero racconto può essere letto come metafora religiosa o comunque morale. Il grande pregio di Lewis è stato però di non cadere mai nel bieco moralismo: la storia è sempre al primo posto.

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“Le cronache di Narnia – Il nipote del mago” di C.S. Lewis

Oggi vi parlo di una lettura che sto portando avanti ad alta voce con i miei figli, la sera, ma che condivido anche con il gruppo di lettura #incontriamocianarnia organizzato du Instagram da @bookshelf20 e @carlottaminghetti
 
Dopo aver concluso, come lettura condivisa, i sette libri di Harry Potter (intervallati anche da altri libri), io e i cuccioli abbiamo deciso di intraprendere il viaggio nel regno di Narnia. Avevamo visto i tre film usciti e io avevo letto alcuni dei libri molti anni fa, ma è stato comunque come vivere tutto per la prima volta.
 
“Il nipote del mago”, il primo libro della saga, edito in Italia da Mondadori nella traduzione di Chiara Belliti, è in realtà stato scritto da C.S. Lewis dopo i primi cinque libri di Narnia, come un prequel che porta alla scoperta della nascita del regno.

Photo cred: Virgina Mori Ubaldini

Alla lettura, infatti, è proprio così che appare. “Il nipote del mago” è un’introduzione, una storia della storia del mondo, un meraviglioso tuffo nel momento in cui tutto è iniziato. L’avventura di Polly e Digory, i due piccoli protagonisti, serve solo da corollario al cantico della creazione del regno di Narnia da parte di Aslan, vero nucleo del romanzo.

Qui scoprirete da dove viene la perfida strega Jadis, come ha fatto il lampione a finire a Narnia e perché gli animali di Narnia parlano. Scoprirete chi sono stati il primo re e la prima regina di Narnia e da dove viene l’armadio magico che più avanti Lucy, Edmund, Susan e Peter attraverseranno.
 
Allora? Siete pronti a partire? Unico requisito: tornare bambini e accettare la magia senza farsi troppe domande. Non ve ne pentirete.

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Photo cred: Virgina Mori Ubaldini

Qui sotto vedete alcune delle illustrazioni di Pauline Baynes contenute nel bellissimo volume in lingua originale che mi sono portata a casa come souvenir da Belfast, città natale di C.S. Lewis.

Digory nella Foresta di Mezzo
Jadis crea scompiglio a Londra
Aslan crea il Regno di Narnia
Digory e Polly in groppa a Fragolino

“Bambini di farina” di Anne Fine

Sempre un po’ in differita con la fine della lettura, vi espongo le mie impressioni su “Bambini di farina” di Anne Fine, prima tappa del meraviglioso #carnegietour creato da Mauro, alias @chiediloallorango

Anne Fine, per chi non la conoscesse, è una scrittrice inglese autrice di molti romanzi per bambini e ragazzi. Ha debuttato alla fine degli anni Ottanta e un suo titolo che forse riconoscerete è “Un padre a ore (mrs. Doubtfire)”, da cui è stato tratto il famoso film con Robin Williams.

“Bambini di farina”, tradotto per Salani editore da Massimo Birattari, narra di un esperimento scientifico da parte di un professore in una classe di “irrecuperabili”. I ragazzi (tutti maschi) ricevono un sacco di farina da tre chili ciascuno, a cui badare per tre settimane come se fosse un bambino. Se il “bambino di farina” perde peso perché si buca, prende peso perché si bagna, si sporca lo studente a cui era affidato prenderà un voto più basso. I ragazzi devono anche tenere un diario in cui raccontano ciò che fanno e che provano in relazione all’esperimento.

Subito ognuno degli studenti tira fuori le proprie doti: c’è chi mette su un “asilo nido per bambini di farina” facendosi pagare per badare ai bambini degli altri, c’è chi se ne frega del proprio e non fa nulla per prendersene cura.

E poi c’è Simon, il protagonista, che fin da subito si affeziona alla sua “bambina”, senza dubbio una femmina. Simon, che è cresciuto con la madre e la nonna, dopo che il padre se n’è andato. Ho trovato Simon molto dolce e riflessivo, come se avesse scelto la via più facile, quella dello svogliato, solo per non doversi mettere in gioco troppo. In realtà è capace anche di grande profondità.

Durante il gdl abbiamo discusso molto sulla questione delle classi divise per “capacità” e “livello”, cosa che credo sia ancora in voga negli Stati Uniti, ma probabilmente anche in Inghilterra. Il parallelismo con le differenze tra un liceo classico e il più “scadente” degli istituti professionali è d’obbligo. Il fatto che i professori stessi non ripongano alcuna speranza nella classe che hanno davanti, purtroppo, è ancora molto comune.

Nel complesso un ottimo romanzo che ha suscitato molteplici pensieri e riflessioni. Proprio come dovrebbero fare i libri.

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“La regina degli scacchi” di Walter Tevis

Beth… Oh, Beth, come farò senza di te?

Ho finito di leggere “La regina degli scacchi” con il gruppo di lettura già da un po’, anche se la discussione finale era ieri, e sono ancora in lutto. Abbandonare Beth mi ha lasciato un grande vuoto dentro.

Come molti ormai sapranno, visto il successo dell’omonima serie Netflix con protagonista Anya Taylor-Joy, “La regina degli scacchi” (tradotto in italiano da Angelica Cecchi, uscito prima per Minimum Fax, poi ripubblicato da Mondadori nella collana Oscar Absolute) racconta la storia di Elizabeth Harmon, una ragazza che a otto anni finisce in orfanotrofio dopo la morte della madre (il padre già non c’era più). Lì, alla Methuen Home For Girls, le uniche persone con cui lega sono la sfrontata Jolene e il custode William Shaibel, che le insegna a giocare a scacchi nel seminterrato cambiandole la vita per sempre. La piccola Beth, infatti, è un prodigio e presto gli scacchi le daranno enormi soddisfazioni. Dopo qualche anno Beth viene adottata dalla signora Wheatley e da suo marito (che però è un personaggio davvero inesistente, a tratti dannoso), una coppia di Lexington, Kentucky. Nella nuova città, Beth partecipa ai primi tornei di scacchi, in cui si conferma essere un genio. Da lì in poi il libro (e anche la serie Netflix, molto fedele al testo), segue le sue vicissitudini tra scacchi, dipendenze da alcol e da tranquillanti.

“La regina degli scacchi”, però, è molto di più. È la storia di una donna alla ricerca del suo posto in un mondo prettamente maschile. E, sebbene il mio trascorso sia molto diverso da quello di Beth, mi sono rivista nella sua lotta, nel suo essere diversa, nel suo fregarsene di ciò che pensano gli altri ma allo stesso tempo soffrirne, nel suo non voler rinunciare a se stessa e alla sua natura, nel suo tentare di riuscire a provare delle emozioni che nessuno le ha insegnato a capire. Le sue sofferenze nei rapporti interpersonali, di cui non comprende appieno il meccanismo, fanno più e più volte venir voglia di abbracciarla e sussurrarle all’orecchio “Ce la farai. Rimani te stessa. Non mollare.”, perché Beth è infinitamente vera, reale, umana.

Dopo averlo letto, davvero non riesco a capire come un capolavoro del genere possa essere caduto nel dimenticatoio per così tanti anni. Il romanzo, il cui titolo originale è “The Queen’s Gambit” (Il gambetto di donna, in riferimento a una famosa apertura di scacchi), è stato scritto da Walter Tevis nel 1983 ed è arrivato in Italia solo nel 2007 pubblicato da Minimum Fax, poi recuperato da Mondadori quest’anno. L’autore ha dichiarato di essersi ispirato alla storia del celebre scacchista Bobby Fischer, ma non temete, non è un libro solo per appassionati di scacchi. È infatti fruibilissimo anche da chi di scacchi non capisce un fico secco, perché la storia di Beth è davvero coinvolgente. Perfino chi non capisce neanche metà delle mosse descritte si finirà le unghie per la tensione durante le partite decisive e gioirà dei successi della protagonista, che arriva perfino a diventare grande maestro internazionale.

Un grazie infinito a Chiara Reali e a tutta la Oscar Vault per aver assecondato il mio entusiasmo, permettendo a me, Ilaria di @unastanzatuttaperse e Melissa di @melissaleggelibri di mettere su questo nostro gruppetto di lettura… Il secondo grazie (non certo in ordine di importanza) va infatti a Ilaria e Melissa per aver organizzato il #lareginadegliscacchigdl insieme a me! Vi voglio bene ragazze! E un grande grazie anche a tutte le ragazze del gruppo di lettura… siete tante, ma voi sapete chi siete. Grazie per averci accompagnato in questo viaggio!

E se ancora avete dubbi, non esitate! Leggetelo!

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La chiusura della partita finale contro Borgov. (spoiler: Beth giocava con i bianchi)

“Finale” di Stephanie Garber

Anche se è passato un po’ da quando ho finito di leggerlo, ecco finalmente le mie riflessioni su “Finale” di Stephanie Garber, tradotto in italiano da Maria Concetta Scotto di Santillo per Rizzoli.

Dopo l’ascesa del mio gradimento da “Caraval” a “Legend”, un po’ temevo che questo terzo capitolo mi deludesse, che la storia diventasse trita e ritrita, ma devo dire che Stephanie Garber se l’è cavata egregiamente.

Il punto di vista e il soggetto narrativo questa volta saltano da Rossella a Donatella. L’autrice, infatti, intervalla uno o più capitoli in cui seguiamo una sorella con quelli in cui seguiamo l’altra.

Le storie d’amore, che alla fine di “Legend” erano ancora confuse, prendono forma definita a mano a mano che la trama si dipana e l’intreccio dell’avventura si intrica per poi risolversi in maniera sensata.

Cercando di non fare troppi spoiler, per chi non avesse ancora letto i primi due capitoli, posso dire che siamo ancora a Valenda, ma come in un videogioco in cui vengono sbloccati nuovi luoghi la città si apre ancora di più al nostro sguardo. Infatti, con la liberazione dei fati, anche oggetti e luoghi fatidici sono nuovamente accessibili. Fanno dunque parte del gioco non solo il Principe di Cuori, ma anche la Stella Caduta, l’Assassino, la Regina Non-Morta, l’Avvelenatore e molti altri, e luoghi come il Serraglio, la Biblioteca Immortale e il Mercato Scomparso assumono un ruolo fondamentale. Senza la Chiave Illusoria o la Mappa di Tutto, poi, la storia non avrebbe senso. Scopriamo ancora di più sulla storia di Paloma, o Paradise, la madre delle due sorelle Dragna. E le implicazioni di queste scoperte determineranno il destino di tutto l’Impero di Mezzo.

Come per gli altri due volumi, ho trovato eccessivo il riferimento a vestiti, scarpe e fiori, ma questo non mi ha impedito di apprezzare moltissimo la storia e il world building. Un ottimo libro, nel suo genere. Il mio preferito della trilogia rimane “Legend”, ma “Finale” è un finale degno, se mi passate il gioco di parole.

E non dimenticate: è solo un gioco, ma tutti i giochi hanno una fine!

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“L’uomo in fuga” di Stephen King (Richard Bachman)

È appena partita la prima tappa del mio #gdlscopriamostephenking e già non vedo l’ora di parlarvi del romanzo distopico “L’uomo in fuga” del grande maestro dell’horror.

“L’uomo in fuga”, pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer nella traduzione di Delio Zinoni, uscì per la prima volta nel 1982 sotto lo pseudonimo Richard Bachman, che Stephen King utilizzò per cinque romanzi prima di essere riconosciuto. Come dice lui stesso nella prefazione “Perché ero Bachman”: «Credo di averlo fatto per raffreddare un po’ l’atmosfera, per fare qualcosa nelle vesti di qualcuno che non fosse Stephen King. Credo che tutti i romanzieri siano incorreggibili mistificatori ed è stato divertente essere qualcun altro per un po’, nel mio caso Richard Bachman».

Corre l’anno 2025 e gli Stati Uniti sono dilaniati dal divario sociale, dall’inquinamento atmosferico, dalle malattie croniche e dalla violenza. La popolazione è tenuta a bada dalla tri-vù – televisione tridimensionale che ogni famiglia deve avere in casa per legge – e dai Giochi che si susseguono incessantemente sugli schermi. Nei Giochi – che hanno nomi tipo Macinadollari, Scavati la fossa, Pistole allegre – i poveri, gli storpi e i malati, la “feccia” della società, gareggiano gli uni contro gli altri spesso per un pugno di dollari. L’uomo in fuga e protagonista del libro è Ben Richards, 28 anni, un metro e ottantotto, quoziente di intelligenza Weschler 126. Richards vive con la moglie Sheila e la figlia Cathy, di diciotto mesi e gravemente malata d’influenza, a Co-Op City, quartiere povero e violento della città di Harding. Dopo essersi licenziato da un lavoro presso la General Atomics che gli avrebbe garantito una morte lenta e la sterilità, Richards non ha più soldi per sostenere la famiglia e la moglie Sheila è costretta a prostituirsi per comprare alla figlioletta le medicine più scadenti al mercato nero. Esasperato dalla situazione, Ben Richards decide di andare al grande Games Building per candidarsi ai Giochi.

Vista la sua forma fisica e la sua intelligenza, Ben viene scelto per il Gioco più remunerativo, ma anche più pericoloso, L’uomo in fuga. Lo svolgimento è semplice: il concorrente, dopo dodici ore di vantaggio e con in tasca una bella somma di denaro, deve riuscire a scappare e non farsi trovare dai Cacciatori, assoldati dalla Rete per ucciderlo. Chiunque fornisca informazioni sul concorrente in fuga viene ricompensato. Per ogni ora di sopravvivenza, il concorrente guadagna cento nuovi dollari. Se riesce a resistere per trenta giorni (cosa mai successa nella storia dei Giochi), ne guadagna un miliardo.

E così, scandita dai 101 brevissimi capitoli intitolati “Meno 100..”, “Meno 099…” fino ad arrivare a “… 000”, seguiamo l’avventura al cardiopalma di Richards. Ovviamente sarà violenta, terribile, ansiogena.

Per non fare spoiler sul libro, chiudo con una riflessione sulla aspra critica alla società che permea il romanzo: Stephen King, qui, ha certamente voluto seguire le tracce di maestri e capostipiti della distopia come Aldous Huxley e George Orwell, mettendo in prosa ragionamenti sul futuro del mondo e della specie umana. Inquinamento, violenza, razzismo, disuguaglianze sociali e l’effetto negativo della televisione sono solo alcuni dei temi che ricorrono nelle pagine di questo libro. Nonostante ciò “l’uomo in fuga”, come lo stesso King afferma, «non è nient’altro che una storia, [che] procede alla velocità ridicola di un film muto e tutto quello che non è storia viene allegramente buttato». Ma in quella ridicola velocità, in quella che “non è nient’altro che una storia” c’è tanto, tanto di più.

Al momento direi che è il libro migliore del 2021. Ma l’anno è ancora lungo, chissà quali altri piaceri letterari mi riserverà!

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“Legend” di Stephanie Garber

In questo sabato un po’ così, in cui il sole non si decide a uscire del tutto, giocando a nascondino con il grigiore che ormai da settimane ci accompagna, mi prendo qualche minuto per riflettere su “Legend”, il secondo libro della saga di Caraval di Stephanie Garber.

Partiamo dal presupposto che leggendo sono in piena comfort zone letteraria. Se non mi dessi una regolata, probabilmente extra lavoro leggerei solo libri per ragazzi, fantasy, distopici e young adult. Poi mi piace anche trascinarmi in altri generi e spesso scopro libri che mi entrano nel cuore, ma se voglio solo coccole letterarie è lì che mi rifugio.

La trilogia di Caraval, dunque, mi si addice molto. Ho iniziato il primo libro senza sapere assolutamente cosa aspettarmi e mi sono lasciata trascinare in questo pazzo, magico mondo rimanendone piacevolmente sorpresa. Legend, però, ha alzato l’asticella e si è dimostrato nettamente superiore al primo sia per caratterizzazione dei personaggi che per intreccio. L’unica cosa lontana da me è la costante attenzione per i vestiti, che trovo un po’ superflua.

Mentre “Caraval” era narrato dal punto di vista di Rossella Dragna, “Legend” è visto dagli occhi della sorella, Donatella Dragna, forse uno sguardo più interessante e a me affine. L’ambiente si sposta dalla Isla de los sueños a Valenda, l’antica capitale dove una volta regnavano i Fati, adesso governata dall’imperatrice Elantine, sovrana dell’Impero di Mezzo. Qui si svolge una nuovo Caraval, che Donatella dovrà cercare di vincere per scoprire il vero nome di Legend e salvare sua madre.

Inganni, astuzie, bugie, tatuaggi, sotterfugi, magia, indizi fuorvianti e intrighi amorosi la fanno da padrone. Nulla è come sembra e nessuno è del tutto sincero. Dopotutto, è di Caraval che stiamo parlando.

Insomma, un mondo ben congegnato e un secondo libro più riuscito del primo, per gli amanti del genere. Un balsamo per cervelli stanchi.

Adesso mi immergo in “Finale”, capitolo conclusivo della saga, di cui credo vi parlerò a breve.

“Legend” di Stephanie Garber è pubblicato in Italia da Rizzoli nella traduzione di Maria Concetta Scotto di Santillo.

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“Le assaggiatrici” di Rosella Postorino

Anni Quaranta, Prussia orientale. Rosa Sauer, dopo la partenza del marito per il fronte, la morte dei genitori e il bombardamento della sua casa di Berlino, ha deciso di trasferirsi dai suoceri a Gross-Partsch, nell’attuale Polonia. A pochi chilometri di distanza c’è la Tana del Lupo, uno dei quartieri generali di Hitler formato da una rete di bunker sotterranei.

Poco dopo il suo arrivo, Rosa viene reclutata dalle SS insieme ad altre 9 ragazze per diventare una delle “assaggiatrici” del Führer. Ogni giorno le ragazze, tutte sui venti-venticinque anni, vengono prelevate dalle loro abitazioni da un autobus che le porta alla caserma di Krausendorf. Lì consumano colazione, pranzo e cena per assicurarsi che il cibo servito ad Adolf Hitler non sia avvelenato. Lauti pasti, con cibi ricercati ed esclusivamente vegetariani, che però potrebbero portare alla loro morte. Dopo ogni pasto, le ragazze devono rimanere per un’ora nella mensa, in attesa di eventuali sintomi da avvelenamento.
 
Nella caserma di Krausendorf le dieci donne stringeranno amicizie, formeranno rivalità, si innamoreranno, affronteranno malesseri, malattie e gravidanze indesiderate. Vivranno, insomma, per quanto sia possibile vivere in dittatura, con una ghigliottina sopra la testa a ogni boccone ingerito.
 
“Abbiamo vissuto dodici anni sotto una dittatura, e non ce ne siamo quasi accorti. Che cosa permette agli esseri umani di vivere sotto una dittatura? Non c’era alternativa, questo è il nostro alibi. Ero responsabile soltanto del cibo che ingerivo…”
 
Rosella Postorino riesce a portare il lettore dritto nella mente e nel cuore di Rosa, e lo fa con maestria. Ci si appassiona alle vicende delle dieci assaggiatrici, con il sottofondo della guerra e di tutti i suoi risvolti: mariti al fronte, bombardamenti, persecuzione degli ebrei nascosti, giochi di potere, vite a pezzi. Lo stile è scorrevole, senza diventare mai banale.

Ispirato liberamente alla vera storia di Margot Wölk, nata il 27 dicembre 1917, assaggiatrice di Hitler che ha rivelato la sua storia solo all’età di 95 anni, “Le assaggiatrici” entra con merito nel novero di libri da leggere assolutamente per non dimenticare le mille sfaccettature della guerra e della dittatura.
 
“Ci era chiaro però che Hitler mentiva, che aveva perso il controllo, che stava fallendo e ci trascinava tutti con sé, piuttosto di ammetterlo. In molti cominciarono a detestarlo da allora. Mio padre l’aveva detestato dall’inizio. Non siamo mai stati nazisti. Nessun nazista, nella mia famiglia, a parte me.”

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“Caraval” di Stephanie Garber

Da quando era bambina, Rossella Dragna ha scritto ogni anno a Legend, il Mastro di Caraval, per chiedergli di portare il suo grandioso spettacolo – un gioco intriso di magia – sulla minuscola isola su cui vive con la sorella Donatella e il padre, crudele e violento.

Quando finalmente arriva una risposta da parte di Legend, Rossella quasi non crede ai propri occhi. Inclusi ci sono i biglietti per partecipare al prossimo gioco, che si terrà sulla Isla de los Sueños, patria di Legend e degli artisti di Caraval. Rossella, aiutata dal misterioso Julian, arriva sull’isola solo per scoprire che Donatella è prigioniera di Legend e il gioco consiste nel ritrovarla, viva.
L’unico problema è che realtà e finzione, veglia e sogno si mescolano… la magia è sempre più forte e confonde la mente. E anche l’amore non scherza, in quanto a distrazione.

“Caraval” di Stephanie Garber, edito da Rizzoli nella traduzione di Maria Concetta Scotto di Santillo, è quello che io chiamo “balsamo per il cervello”, una storia che ti porta lontano, chiedendoti poco in cambio. Leggerlo è un piacere, un sollievo, rinfresca la mente.
 
Dopo un inizio sfavillante (ho letto 250 pagine in 24 ore), a un certo punto ha perso un po’ di smalto, ma si è ripreso subito e il finale è stato del tutto soddisfacente. Ho già letto anche il secondo della saga, “Legend”, e ve ne parlerò presto. Vi dico solo che ho già ordinato anche il terzo.

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